Siate sinceri: ma voi, ci vorreste curiosare tra i meandri più – o meno – reconditi della mente di Takashi Miike? Tra creature difformi, bondage perversi e omicidi seriali puntellati qua e là di humor controverso, ci vuole un fegato a prova di ALT e GPT per uscirne “illesi”.

Classe 1960, il regista di Osaka è alle prese con l’universo filmico dalla seconda metà degli anni ‘80 e di gavetta state certi che ne ha fatta prima di potersi affermare come uno dei più influenti cineasti nipponici.

Ma è dagli ultimi anni del secolo scorso che Miike ha iniziato a rivelare il “meglio” di sé al grande pubblico, valicando i confini nazionali con film come Rainy Dog e Full Metal Yakuza, entrambi diretti nel 1997. Ora, sicuramente di recente in molti avranno potuto apprezzare il Miike più mansueto con l’uscita su Netflix de L’immortale, ispirato al manga di Hiroaki Samura, oppure avranno visto – sotto consiglio di un amico cinefilo a cui difficilmente chiederanno un altro parere una seconda volta – il più noto Audition. Sì, quello con la bella ragazza orientale con una grossa siringa tra le dita (che poi è la bravissima Asami Yamazaki).

Scherzi a parte, il cinema di Miike non è per tutti gli intestini. Ma non perché sia l’incarnazione dell’intimismo asiatico come Kitano e quindi rivolto a chi i “silenzi sul mare” sa apprezzarli anche per abbondanti minuti, ma proprio perché degli intestini lui ne fa soggetti, spesso e volentieri. E di film Miike ne ha fatti un po’ tutto sommato, un gruzzoletto, appena 107. Protagonisti indiscussi dei suoi successi sono boss della yakuza che non conoscono pietà, prostitute e reietti della perfetta ed edulcorata società giapponese, mostri grotteschi frutto della sua fantasia alquanto contorta. Personaggi ai quali Miike comunque dedica il massimo delle attenzioni, perché “un film è guidato dai suoi personaggi, non dagli effetti speciali”.

Ingredienti per il piatto dello chef: sangue e violenza, q.b. Ma nei film di Miike il sangue non basta mai e se ne abbonda fino a sporcare le lenti della camera. Spesso accusato di misogina per le crude scene di stupro e torture a discapito delle donne, in realtà Miike ha anche messo in scena delle femme fatale spietate come la già citata Eihi di Audition e il matriarcato di Visitor Q, tra coprofagia e necrofilia.

Il suo è un film fatto di ultraviolenza visionaria e grottesca, che si è incisa in scene “indimenticabili” come la tortura di Komomo nell’episodio – poi censurato – di Masters of Horror e le scene di zoofilia dell’iconico Dead or Alive. Il tutto, miscelato in un montaggio altrettanto “da voltastomaco” – lungi dall’avere un’accezione negativa – per i continui e velocissimi cuts intervallati solo da alcuni piani sequenza.

Takashi Miike, indubbiamente, è un artista le cui opere possono essere definite controverse, estreme ed elitarie. Allora perché approcciarsi al cineasta? È da fare perché non tutti i suoi film sono così complessi visivamente e perché dietro il disgusto c’è una critica profonda verso il marciume che impregna la società in ogni suo aspetto, una volontà di non raccontarsi favole e di squarciare la tela come un Fontana del Sol Levante.